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La scoperta dei ricercatori padovani, cura la sindrome della schizofrenia

Nuove prospettive per la cura e il trattamento della schizofrenia: la buona notizia arriva da Londra, ed in particolare dal King’s College, dove è stato recentemente pubblicato uno studio dai risultati stupefacenti.
La notizia è già stata riportata dai maggiori media internazionali, tra cui la Bbc, e la principale novità consiste in una forma innovativa di diagnosi precoce, effettuata a partire da un’infiammazione cerebrale. La ricerca (cui hanno collaborato anche i centri di imaging e di psichiatria dell’Imperial College di Londra e l’Università del Texas) porta la firma anche di tre ricercatori padovani, del gruppo di Bioingegneria dell’Università di Padova: la dottoressa Gaia Rizzo e la professoressa Alessandra Bertoldo, in particolare, hanno lavorato da Padova, mentre il dottor Mattia Veronese è attualmente proprio al King’s College, dove collabora con il professor Federico Turkheimer.
«Lo studio» spiega Gaia Rizzo «ha dimostrato per la prima volta come i processi infiammatori si instaurino nel tessuto cerebrale ancora prima che la malattia si manifesti. In parole molto semplici, non solo i pazienti schizofrenici mostrano una diffusa infiammazione a livello cerebrale, ma questa infiammazione si presenta prima della malattia stessa. E potrebbe essere una spia, un campanello che mette in allarme sulla possibilità di manifestarsi della patologia psichiatrica».
Il team ha esaminato 56 persone, di cui 14 identificate come “ad alto rischio”, pazienti cioè che avevano manifestato forme di paranoia o allucinazione, ma non ancora gli episodi psicotici che caratterizzano la patologia psichiatrica.
I risultati dello studio hanno rilevato un’infiammazione superiore nei soggetti ad alto rischio, cosa che in passato era stata intuita, ma non dimostrata. La percentuale di probabilità per questi pazienti di sviluppare la malattia è tra il 20 e il 30 per cento. Non poco. E’ stata definita, inoltre, una progressione: il cervello di un paziente ancora sano, quindi, è meno “infiammato” rispetto a quello di un paziente ad alto rischio. Lo studio è durato per circa tre anni: la parte riguardante la sperimentazione e l’individuazione dei pazienti si è svolta tutta a Londra, mentre è a Padova si è svolta l’analisi dei dati. Il contributo padovano è stato di fondamentale importanza, perché senza lo strumento messo a punto dai ricercatori di Bioingegneria non sarebbe stato possibile trarre le conclusioni che ne costituiscono il valore scientifico. «Il nostro lavoro» spiega ancora la dott.ssa Rizzo «si è concentrato sulla creazione di un “modello”, uno strumento che permette di interpretare gli esami clinici e di estrarre i dati. Siamo molto soddisfatti, prima di tutto perché il nostro modello ha permesso di dare
dei risultati in campo clinico, e poi perché abbiamo potuto confermare intuizioni ancora non dimostrate. Se arrivassero conferme della nostra teoria anche attraverso altri studi, si potrebbe pensare di fermare l’infiammazione prima dell’insorgere della malattia, trovando nuove forme di cura». *fonte il web
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